Caro Muller, nel corso di un’intervista, mio padre (il Prof. Dino Amadori) mi ha parlato di Te e della Tua brillante storia professionale, come vi siete conosciuti?

In occasione di un incontro per l’orientamento Universitario per gli studenti liceali a Forlì era presente la dott.ssa Patrizia Gentilini che conosceva la mia vocazione orientata a studi e ricerca Oncologica.

Fu lei che mi consigliò di parlare con il Prof. Dino Amadori. Per me ha rappresentato un sogno che si poteva realizzare in quanto il Prof. Amadori è sempre stato presente nella mia vita. Sin da piccolo, in casa, si è sempre parlato di ‘quel giovane medico’ straordinario che con doti ‘quasi magiche’ riusciva, guardando le persone, a capire e diagnosticare “quel brutto male”.

E’ stata proprio questa l’ immagine del Prof. Amadori che sin da piccolo mi ha ispirato con effetti che certamente hanno influenzato le mie scelte orientandomi senza dubbi verso gli studi e le scoperte di questa malattia misteriosa che tutti neppure osavano nominare e definita “quel brutto male”, proprio come scrive il Prof. nel suo libro autobiografico.

Sono stato da sempre incuriosito da questa malattia con diagnosi che spaesavano e terrorizzavano, non solo chi ne era colpito, ma anche medici e ricercatori.

La figura di Dino Amadori come mi veniva raccontata da mia madre e dalle mie zie al ritorno da loro incontri professionali con il Prof. mi ha affascinato ed ispirato. Per loro era un giovane medico in grado di ridare speranza e molto spesso la vita e la sopravvivenza a tante persone.

Quando mi è stato proposto di conoscerlo di persona ho accettato senza esitazione ma con un po’ di timore. Mi sono posto mille interrogativi quali la possibilità di essere alla sua altezza e se potesse essere interessato alla mia vocazione per gli studi oncologici.

Ricordo molto bene quando andai ad incontrarlo al Pierantoni, nel suo studio, e subito tutte le “paure” sparirono trovandomi innanzi ad una persona estremamente gentile con fare quasi paterno che mi mise a mio agio. Subito mi chiese che media avessi. Aavevo una media altissima di trenta e lode. Lui quindi mi invitò subito a concludere quanto prima gli studi e mi disse “fai in fretta, puoi prendere anche qualche voto sotto il trenta purchè tu faccia in fretta e venga qui, ti aspetto”.

Quell’ incontro mi permise di conoscere “un grande” e mi portò poi a specializzarmi in oncologia medica presso l’Università di Ferrara. Sino poi ad arrivare nel team di ricercatori e medici diretti e gestiti dal Prof. Dino Amadori.

Oggi lavori negli Stati Uniti e sei “Associate Director Center for Cancer and Immunology Research- Children’s National Hospital e Associate Professor- George Washington University, Washington, DC, USA” n, ma non credo sia stato tutto così semplice come te la racconto. Quando sei arrivato negli Stati Uniti per la prima volta, quale è stato il primo impatto?

Fu traumatico! Infatti io giunsi negli Stati Uniti dopo un’esperienza esclusivamente clinica fatta in Italia.

Ero un ‘oncologo medico con un’esperienza esclusivamente clinica e provenivo da una attività di reparto presso l’Hospice di Forlimpopoli. Mi sono trovavo all’improvviso letteralmente catapultato in un contesto medico scientifico di ricerca in terapia genica di base: dal malato terminale a un contesto che studia la terapia genica (ndr. la terapia genica, in estremissima sintesi, riguarda la manipolazione del materiale genetico (DNA) all’interno delle cellule al fine di poter curare varie malattie, tra cui il cancro ).

A Forlimpopoli prescrivevo chemio e radio terapia ai miei pazienti: sono improvvisamente passato dal malato terminale ad un laboratorio che studia la terapia genica. Sbalzato dalla morte alla vita in un attimo!

L’esperienza a Forlì mi ha consentito un approfondimento a 360 gradi in campo oncologico dalla degenza dal day Hospital oncologico fino all’Hospice di Forlimpopoli e oggi negli USA sono entrato nel mondo della terapia genica e ricerca di base.

Mi ritengo molto fortunato. Negli Usa ho imparato rapidamente iniziando da subito a pubblicare le mie ricerche. Ricordo in particolare un aneddoto del Prof. Amadori: sarei dovuto restare negli USA per un anno, l’accordo con il Prof. Amadori era questo e lui mi disse chiaramente “fra un anno devi tornare se no mi arrabbio. Devi portare qua quello che hai imparato, io ti supporto e ti finanzio ma poi torni “…. queste le sue parole! ….

Queste Tue parole mi inducono ad una riflessione: anche in questo caso mio padre si è rivelato illuminato e lungimirante e direi controcorrente, contrapponendosi alla attualissima “fuga di cervelli” di giovani ricercatori che si formano e studiano in Italia, a spese del S.S.N., per poi fuggire all’estero. Credo che Lui abbia capito da subito ed in ‘tempi non sospetti’ – e tu lo confermi – che la ‘rotta’ doveva essere invertita…..

Confermo, è proprio questo il punto. Ma il Prof. fu ancora più intelligente e visionario. E la verità è che in tanti, qui in Italia non ci sono ancora arrivati. Lui infatti aveva capito che non bisogna insistere necessariamente perché poi si ritorni, perché ben comprendeva le opportunità che un paese come gli Stati Uniti offre ad un ricercatore in campo medico scientifico e mi disse “…. tu hai un’opportunità straordinaria negli USA per imparare la lingua e per essere esposto a questo tipo di scienza, io non ho avuto questa fortuna, tu invece si, tu l’hai” e proprio per questo motivo – ed è questo il suo quid pluris – ad un certo punto, quando capì che negli USA le cose per me stavano andando bene, non fu ostinato nel volermi far tornare. Capì infatti che così facendo mi avrebbe tarpato le ali. Piuttosto lui, cambiò atteggiamento e mi disse: “…..non posso obbligarti a tornare, iniziamo a collaborare insieme creiamo un RETE : la tua carriera che oggi hai avviato negli Stati Uniti e il tuo laboratorio deve diventare un punto di forza anche per il mio Istituto. Così io potrò mandarti medici a farsi formare da te negli USA”.

Questa è una cosa che ancora oggi in tanti non hanno capito volendo piuttosto mantenere il controllo su tutto anche in settori che sarebbe meglio delegare “facendo rete” come ha sempre fatto il Prof. Amadori.

Mi disse anche “..in Italia ci sono tanti Baroni (della medicina). Se vuoi mi puoi considerare anche uno di questi ma, a differenza di tanti altri, io sono un barone intelligente, un barone illuminato”.

Il Prof. aveva ragione: in Italia infatti troppo spesso la medicina è influenzata da certi baroni e poteri politici ciechi e senza visione.

Lui aveva il controllo della situazione e voleva giustamente che ‘le cose’ fossero come riteneva giusto. Ma aveva anche sempre l’attenzione prioritaria alla vita dello scienziato che stava formando e per ciò che era giusto per lui. Lo spiego con un altro esempio concreto della sua visione.

Quando sarei dovuto tornare dagli Stati Uniti il Prof. Amadori parlò con il mio capo e gli disse di farmi finire le ricerche che avevo iniziato spiegandogli che non avrebbe potuto supportarmi ulteriormente. Con la sua lungimiranza capì e cambiò visione e con l’idea di “fare rete” intuì che proprio da me poteva e doveva partire per dare nuove occasioni di carriera e studi e ricerche ad altri giovani ricercatori italiani, dando loro opportunità in più presso il mio team. Una grande intuizione e intelligenza questa.

Forse, caro Muller è proprio questo il punto da cui partire per tentare di trovare una risposta e una soluzione alle tante domande per certa mala sanità ma, ancor di più, il punto da cui ripartire per superare i limiti che trova la ricerca medico scientifica nel nostro bel paese….

Prof. Muller un tema che mi sta a cuore e che porto avanti con l’Associazione Dino Amadori Ets riguarda la difficoltà nel reperire fondi per la ricerca in Italia. Come stanno le cose negli Stati Uniti?

Anche negli USA le cose non sono più come qualche anno fa. Direi che la differenza è che lì c’è un forte supporto dai National Institutes of Health e fanno delle chiamate per grant – borse di studio che supportano i progetti– almeno tre volte all’anno.

In Italia invecea la situazione non è ben definita e vi sono FORSE chiamate per fondi ministeriali ….senza certezze e senza programmazione e con scadenze variabili, non si sa mai ogni anno quando escono questi fondi, nè per quali progetti, nè per quali importi nè come verranno supportati.

Negli Stati Uniti poi c’è anche il Dipartimento della Difesa e moltissime fondazioni che supportano la ricerca contro il cancro in Italia invece : poche fondazioni e POCHISSIMI fondi governativi.

Lo Stato Italiano dovrebbe quantomeno garantire un meccanismo costante di chiamata ai grant, ovvero comunque elargire una parte significativa del budget di Stato alla ricerca scientifica: noi abbiamo immense potenzialità e talenti. Noi italiani infatti siamo chiaramente formati benissimo in maniera superiore agli Stati Uniti e non solo … e poi, però, l’Italia, che ci consente questa formazione praticamente “gratis”, ci perde quando è ora di “raccogliere” perché le vere opportunità ci vengono offerte dagli altri paesi.

Qui non paghiamo praticamente niente di scuola nè di Universita’ (…sempre rispetto agli USA): quindi lo stato investe sulla nostra formazione. Ma quando siamo pronti poi andiamo via perché qui pur essendoci certamente degli ottimi gruppi di ricerca, questi fanno molta più fatica!!

Un paio di anni fa sono stato invitato ad un congresso della Società Italiana di Cancerologia e sono rimasto molto colpito dal tipo e dall’alta qualità degli studi che riescono a fare i gruppi di ricerca italiana pur con i pochi fondi di cui dispongono.

La Tua analisi è certamente illuminante e condivisibile e fa il paio con una mia personale esperienza quando, in occasione di un mio viaggio a Houston, con mio padre, conobbi il Prof. Ferrari, direttore di un centro all’avanguardia sulle nanotecnologie e robotica chirurgica. Ferrari raccontava che dirigeva un nutrito gruppo di giovani ricercatori con a disposizione fondi per borse di studio a sei zeri per i progetti che portavano avanti…. Ma in Italia non è così ed è sotto gli occhi di tutti.

Un’ultima riflessione Prof. Fabbri: Mio padre è ricordato anche per la forte empatia e per il rapporto di confidenza e di reciproca fiducia che lo legava ai propri pazienti. Lui anteponeva sempre il rispetto del paziente e di tutta la sua sfera emotiva a qualsivoglia approccio clinico e scientifico e tale vocazione ha ispirato tutta la sua vita professionale. Ritengo che tali caratteristiche dovrebbero ispirare chiunque si approcci alla professione medico scientifica clinica ma pure di ricerca. Cosa ne pensi Tu e qual è la Tua esperienza al riguardo?

Quando ero ancora qui in Italia ed iniziai a frequentare la corsia in oncologia medica qui a Forlì, una delle cose più importanti a cui volevo veramente prestare attenzione era come venisse comunicata una prognosi difficile ad un paziente ed ero particolarmente attento quando si faceva il giro in corsia, soprattutto quando c’era il mio primario, Dino Amadori.

Volevo capire come lui comunicasse una diagnosi con poche possibilità di guarigione ad un/una paziente e, ricordo molto bene, il giorno ed il viso della paziente quando vissi un’esperienza che mi illuminò.

Il Prof. accompagnava sempre con un contatto fisico ed affettuoso il confronto con la paziente. Non usava mai parole forti quali ‘cancro’, ‘terminale’ o ‘metastasi’ – sono parole queste che fanno paura non usava mai parole tecniche, o pericolose neppure difficili. E, tuttavia, non per questo non diceva la verità.

Lui riusciva sempre a comunicare – nel momento in cui dava la diagnosi – anche una finestra di speranza in chi gli stava innanzi. Davanti alle sue parole il paziente capiva che la situazione era difficile ricevendo comunque l’impulso per reagire e affrontare la situazione con la forza necessaria e il coraggio che gli veniva trasmesso. Era chiaro che dopo aver parlato con il Prof. il paziente aveva capito e collaborava.

Questo è un approccio che non esiste negli USA. Nella medicina anglosassone, sono guidati dalle statistiche e comunicano percentuali e rischi statistici con freddezza e distacco. Trovo la risposta nella logica del rapporto Assicurativo Sanitario Americano. Penso che tutto ciò derivi dal sistema dalle assicurazioni ove i medici si trovano obbligati a comunicare al paziente in tal modo per prevenire potenziali cause di r.c. che ne deriverebbero laddove si comportassero in modo diverso contro il medico: una sorta di “consenso informato indiscriminato e crudele”.

Una differenza culturale quindi prof. Muller un diverso contesto socio culturale sopraffatto dalla logica economica sistemica in tali Paesi che sotto questo aspetto hanno tutto da imparare da noi.

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A cura di Giovanni Amadori Presidente della Associazione Dino Amadori Ets in collaborazione con Chiara Immordino Presidente della Associazione Mundi

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